martes, 29 de noviembre de 2011

Anónimo.- LAZARILLO DE TORMES

Anónimo.- LAZARILLO DE TORMES



PRÓLOGO



      Yo por bien tengo que cosas tan señaladas y por ventura nunca oídas, vengan a noticia de muchos y no se entierren en la sepultura del olvido, pues podría ser que alguno que la lea halle algo que le agrade, y a los que no ahondaren tanto los deleite. A este propósito dice Plinio que no hay libro, por malo que sea, que no tenga alguna cosa buena. Mayormente, que los gustos no son todos unos, mas lo que uno no come, otro se pierde por ello; y así vemos cosas tenidas en poco de algunos que de otros no lo son. Y esto para que ninguna cosa se debría romper ni echar a mal, si muy detestable fuese, sino que a todos se comunicase, mayormente siendo sin perjuicio y pudiendo sacar de ella algún fructo; porque, si así no fuese, muy pocos escribirían para uno solo, pues no se hace sin trabajo, y quieren, ya que lo pasan, ser recompensados, no con dineros, mas con que vean y lean sus obras y, si hay de qué, se las alaben. Y a este propósito dice Tulio: La honra cría las artes.



      ¿Quién piensa que el soldado que es primero del escala tiene más aborrecido el vivir? No por cierto; mas el deseo de alabanza le hace ponerse al peligro; y, así, en las artes y letras es lo mesmo. Predica muy bien el presentado y es hombre que desea mucho el provecho de las ánimas; mas pregunten a su merced si le pesa cuando dicen: “¡Oh, qué maravillosamente lo ha hecho vuestra reverencia!” Justó muy ruinmente el señor don Fulano, y dio el sayete de armas al truhán porque le loaba de hacer llevado muy buenas lanzas: ¿qué hiciera si fuera verdad?


      Y todo va desta manera: que, confesando yo no ser más santo que mis vecinos, desta nonada que en este grosero estilo escribo, no me pesarán que hayan parte y se huelguen con ello todos los que en ella algún gusto hallaren, y vean que vive un hombre con tantas fortunas, peligros y adversidades.


      Suplico a Vuestra Merced reciba el pobre servicio de mano de quien lo hiciera más rico, si su poder y deseo lo confirmaran. Y pues Vuestra Merced escribe se le escriba y relate el caso muy por extenso, parecióme no tomalle por el medio, sino del principio, porque tenga entera noticia de mi persona; y también porque consideren los que heredaron nobles estados cuán poco se les debe, pues Fortuna fue con ellos parcial, y cuánto más hicieron los que, siéndoles contraria, con fuerza y maña remando, salieron a buen puerto.




lunes, 14 de noviembre de 2011

Luigi Pirandello.- Il fu Mattia Pascal

Antologías


Luigi Pirandello.- IL FU MATTIA PASCAL

I. PREMESSA
Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavamo Matia Pascal. E me ne approfitavo. Ogni qual volta qualcuno dei miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:
“Io mi chiamo Mattia Pascal.”
“Grazie, caro. Questo lo so.”
“E a ti par poco?”
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il no poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza:
“Io mi chiamo Mattia Pascal.”
Qualcuno vorrà bene, compiangerli (costa così poco), immaginando l’atroce cordoglio d’un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt’a un tratto che… sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, o dei vizi, o della tristezza dei tempi, che tanto male possono esser cagione a un povero innocente.
Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, difatti, in un albero genealogico, l’origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.
E allora?

Ecco: il mio caso e assai più strano e diverso; tanto diverso e stano che mi faccio a narrarlo.
Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morrendo al nostro Comune. E ben chiaro che questo Monsignore dovete conoscer poco l’inole e le abitudini dei suoi concittaini; o forse sperò che il suo lascito doversse col tempo e con la comodità ascendere nel loro animo l’amore per lo stuio. Finora, ne posso renere testimonianza, non si è acceso; e questo dico in lode dei miei concittaini. Del dono anzi il Comune si dimostrò così poco gratto al Boccamazza, che non volle eppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua l’affidò, senz’alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e della vecchiume.